giovedì 30 settembre 2010

IO NEI RACCONTI NON BEVO MAI

Grazie M.P.

La linea gialla delimitava l’area che ospitava i bagni alla turca, per favore mantenere la distanza in modo da agevolare le operazioni e mantenere una certa composta discrezione e io non l’avevo mai visto un cartello dilungarsi in questo modo, ci mancavano solo i commenti poco sarcastici di un indelebile blu a completare il romanzo a puntate come note posticce a piedi pagina. Mi ricordò non troppo fantasiosamente in un naufragio di lucidità l’immagine di un ipotetico indomani mattina ad abbracciare le valige flosce di oggetti dimenticati a casa fino a sollevarle all’altezza degli scalini del vagone 7, un vagone a caso, li dove il treno si fermava ad interrompere le mie solite divagazioni estemporanee sui balconi dei palazzi di fronte in cui cercavo di scorgere una linea di interpretazione momentanea che mi offrisse uno sguardo immaginifico sugli ipotetici abitatori, sempre che non me li trovassi di fronte a stendere il bucato in canottiera a materializzare ogni dubbio o sempre che non mi trovassi un orizzonte di aperta campagna in cui non mi restava che sbriciolare ogni mia mania deduttivo-indagativa e riqualificare il senso stesso del mio ricordo-proiezione futuro:  oltrepasso la linea ormai morsi e sbavature ma solo perché da li ho una visione completa sul disordine dei lavandini, dev’essermi caduto qualcosa dalla tasca mentre tiravo fuori il fazzoletto, mentre mi asciugavo il viso appena lavato, mentre mi accorgevo che l’asciugatore era guasto, mentre richiudevo il rubinetto con tiepidi movimenti igienici, mentre mi tiravo acqua in viso per recuperare ore di sonno inesistenti e un po’ di credibilità di fronte all’immagine che andavo distinguendo di fronte a me e anche di fronte al tizio che era appena uscito dal bagno che sembrava essersi liberatamente rifiutato di lavarsi le mani più per evitare la mia vicinanza che per pigrizia o diseducazione, si che magari se mi sistemo decentemente quello ritorna ed ovvia alla sua inottemperanza (con questa parola l’autore ci proietta nel campo esperienziale dei cartelli onnipresenti nelle aree di interscambio fra un vagone e l’altro, sempre l’indomani mattina, sempre abbracciando le valige mentre mentalmente sbraita un’espressione molto disinvolta e col piede tenta di aprire una porta strettissima che divaricherà facendo perno con la schiena gettandosi verso un futuro migliore in un vagone presumibilmente privo di suonatori di fisarmonica o di camminatori coi calzini al vento) insomma il mio fabbisogno paranoico giornaliero evidentemente non pienamente appagato esige che io sia immotivatamente convinto che qualcosa di importante mi sia caduto dalla tasca. Questo per la semplice constatazione ordinaria che nelle tasche frontali non abbia nulla escludendo un paio di scontrini regrediti al livello di palline indecifrabili. Dai bagni un odore di stazione, di pozze sospette da sottopassaggio, dei lunghi passi fatti per evitarle e salti indomiti delle valigie a carico. Quando mi abbasso fa ancora tutto più schifo, mi piego per sondare il pavimento di pedate e impronte e scarpe, come se ci fosse del fango, come se non fossimo in pieno centro ma in un bar piovoso con ingresso sterrato e tanto di giornali sul pavimento d’ingresso che nessuno sembra dargli molta importanza, fatta esclusione del tipo profondamente colpito dall’articolo estivo sull’incipiente siccità che sosta ebete per qualche secondo prima di accorgersi che la data è di sei anni prima, e lui sei anni prima era da tutt’altra parte, e a far riaffiorare i ricordi finisce per rimanere in quella posizione, ebete, finché qualcuno da dentro non caccia un urlo perché sarebbe anche il caso di chiudere la porta che fa freddo. Io dalla porta dietro di me sento degli evidenti spasmi di cedimento gastroenterico. E quando mi volto capisco il motivo della linea gialla, che le porte sono devastate da chissà quale rissa o gesto immotivato, o forse è solo legno marcio con le sue crepe di morsi, legno laccato di grigio come le porte di una scuola, o quelle di un bagno pubblico. E‘ lei dentro piegata a inghiottire fuori il disordine umorale interiore. E’ lei che mi fa dubitare di essere entrato nel bagno giusto. E non sarei comunque l’unico ad aver sbagliato, io almeno mi sono lavato le mani, e comunque sulla destra ci sono gli orinatoi quindi signorina mi dispiace molto ma E’ lei che è pregata cortesemente di spostarsi nel locale accanto dove potrà proseguire in piena libertà il suo rigurgito fisiologico. E’ lei di cui riesco a distinguere solo i capelli, e le mani aggrappate alla tavoletta alzata, e al termine di una parentesi igienistica in cui un documentario mostra tramite una grafica sovraesposta l’evolversi esponenziale di una popolazione di batteri dal nome in latino, e di uno spezzone di filmato in cui prima di far utilizzare il mio bagno do una passata veloce con lo spray disinfettante, mi soffermo su quelle mani, che normalmente sono l’ultima cosa che guardo in una persona a meno che non soffrano di un’eccessiva sudorazione, e penso che un’ipotetica persona che a un’ipotetica domanda sulla parte del corpo che per prima guarda in una donna risponda “le mani” (al terzo posto dopo occhi e scarpe secondo un recente sondaggio) quelle mani li, con quello smalto e le dita che nel mio vocabolario interiore vengono immediatamente inserite come foto mancante alla voce “affusolato” benché cosparse di batteri prolificantisi. Insomma quelle mani li  dovrebbero piacere. Per la gioia di chi al secondo posto ha scelto “le scarpe” dovrei piegarmi a guardare sotto, li dove finisce la porta, ma non mi sembra molto educato e allora torno discretamente al lavandino, riprendendo a lavarmi le mani, riprendendo da dove ero rimasto, aspettandomi di vederla uscire dallo specchio, in un biancore sconvolto, chiedere scusa ai presenti, che poi sarei io, e avvicinarsi al rubinetto a sciacquarsi colpevolmente timida la bocca, stupendosi ma senza esagerare del trucco colato dalla frangetta disarmonica. Invece dopo qualche minuto di temporeggiamento: variazioni sul tema, la sua voce “senti io non lo so che razza di merda hai toccato ma secondo me adesso le mani le hai pulite quindi passami qualche metro di carta per pulirmi e graziosamente evita di guardarmi quando esco, che se mi faccio schifo voglio essere la prima a pensarlo”. Io la prima cosa che guardo in una donna è la voce (5,2% degli uomini, dati alla mano) quindi quando chiudo gli occhi e le passo una palla arrotolata di carta potrei esserne praticamente già innamorato. Come in una scena di un film presumibilmente girato da Antonioni lei adesso parla con la mia nuca riflessa nello specchio mentre io le do le spalle e frugando nelle tasche nervosamente finisco per ricordarmi che stavo cercando qualcosa.  E mentre dentro di se riflette sul fatto che in un film presumibilmente girato da Antonioni io dovrei somigliare un po’ di più ad Alain Delon mi tira su un discorso strano sul fatto che non devo prenderla per una persona superficiale, che in realtà lei negli ultimi tempi  beve solo per vomitare,per quella liberazione dolorosa e incontenibile, per i cinque minuti di lucidità che sta passando ora, per il buco nello stomaco, per il dolore sotto le mascelle provocato dalla tensione muscolare, per la gola acida di sputi, perché con quel gesto si svuota metaforicamente di tutto quello che si tiene dentro, è come URLARE mi dice, mi dice che in fondo ognuno ha il suo grido di disapprovazione, mi dice che si chiama Valentina, mi dice che non potrebbe sopportare l’idea di cacciarsi un dito in gola, mi dice che non potrebbe sopportare l’idea di urlare davvero, magari in faccia a qualcuno e magari ferirlo, col solo scopo di sfogarsi. Mi dice che adesso è serena e che il gruppo che ha suonato sta sera non riusciva neanche a sentirlo. Mi dice che adesso è serena anche con un po’ di mal di testa e la stanchezza dovunque “mi succede al massimo una volta al mese, di solito prima di ritornarmene a casa dai miei, così evito di portarmi dietro pesi inutili”.  Gli dico che è il motivo meno stupido che ho sentito fin’ora, fra i motivi per cui bere. Che è molto meno stupido del motivo per cui io sta sera non ho toccato Alcool  ed “è molto meno stupido del motivo per cui questa sera proprio non mi va di parlarne” . Penso che adesso vuole rimanersene da sola, allora esco stringendogli appena un po’ di conforto sulla spalla mentre la guardo in faccia per la prima volta. Esco prima che possa trovare il modo di contattarla, prima di chiederle graziosamente il numero. Io domani nella carrozza senza suonatori di fisarmonica di sicuro la ritrovo, ho riconosciuto l’accento, a costo di farmi tutti i vagoni a piedi con le valige in mano e le ginocchia a sbattere per farmi spazio fra le smorfie e gli insulti. Mostrare un’espressione molto disinvolta mentre le chiedo se il posto accanto a lei è libero. Ognuno ha il suo grido di disapprovazione, ognuno la sua dichiarazione silenziosa d’aiuto.

3 commenti:

.ailuiG ha detto...

e...oltre al grido di disapprovazione, questa volta si capisce che sei tu...tu chi è? =) cmq del vino da bere ce ne ho anche io una paginetta di un anno fa, e coincide,pensavo di programmarla per i giorni a venire ma mi hai preceduto, adesso come faccio!?

renton ha detto...

molto bello, molto...

Nico ha detto...

ieri ero troppo contento d'aver scritto un racconto di senso compiuto. finalmente