giovedì 30 settembre 2010

Questa volta si capisce che sei tu

E vorrei chiamarti a volte. Anche solo per parlarti all’orecchio, senza che tu dica nulla in un monologo o un soliloquio a seconda che la definizione sia quella giusta, sia quella in cui un ascoltatore da qualche parte è pur presente in scena, anche se non può parlare perché non ha uno spazio proprio dove poterlo fare. Raccontare di quando mi piace sentirmi chiamare al supermercato, che invece è una mamma chiama il suo bambino, che prima mangiava e rideva un pezzo di parmigiano. E dell’altro giorno quando appena arrivati all’agriturismo, nella vecchia stanza di un mulino, un gruppo di anziani pranzava in fondo alla sala davanti a una tv parlando di racconti partigiani che a fargli una foto sembrava una piccola scena domestica privata. E cercarti su google, riempire il campo “simile a” e “nelle vicinanze di” e ricevere come risposta “forse stavi cercando: la solitudine al 50% di sconto” e averti fatto sorridere davvero almeno una volta, senza l’utilizzo di programmi di fotoritocco. E sciogliersi in elenchi di proposizioni rette da un infinito presente solo per esercitarsi nello stile delle centrali elettriche, scrivere a carattere 72 per non farsi influenzare da nulla che non siano le dieci parole scritte in precedenza. In quei giorni andava di moda farsi un bicchiere di caffè doppio da consumare durante la giornata per averci gli occhi giganti e il cuore acceso e niente di completamente immobile in corpo. Confessarti ridendo di non aver mai conosciuto una persona che se la prende per motivi così scemi, e quanto questo sia riuscito a limare nel tempo la mia fottuta apprensione da neo-genitore-pre-pensionato. Amare così tanto gli scrittori francesi da volerne imparare la lingua. E che la prima cosa che insegnano di una lingua sono i numeri. Come se davvero fosse poi così importante quantificare. Come se poi fosse davvero importante salutare François o un suo amico biondo. Se poi davvero fosse utile rimanersene chiusi in casa a comprimere lo spazio dando una maggiore importanza voluttuosa al tempo. Farsi bastare una tovaglia piegata in quattro e appassionarsi in pareri non richiesti sulla possibilità di parcheggi in divieto di sosta. Siccome sono troppo scrupoloso per rubare un cartello stradale e macchiarmi di un qualche crimine federale un giorno ne compro uno e lo appendo in camera. Progettare messaggi di auguri per la nuova casa. Inviti a soffermarsi su ogni quadrato di muro, ogni mensola vuota. In attesa che durante l’anno si riempia gradualmente improvvisa di senso e di storia e di ricordi. Parlarti dei progetti di sconvolgimenti letterari, di tecniche ai limiti della comprensione coadiuvate da crolli grammaticali ed elisioni sintagmatiche. Oltre Giacomo della gioia o della signora Lupo. Che a volte la finestra sul retro si affaccia sull’unico pezzo di città sereno, che sono lontano come Parigi, anche se ancora non ho mai visto Londra. Dei miei disordini architettonici infantili di cuscini e coperte. Capire perché lo facevamo. Capire perché lo facciamo ancora, e con materiali metaforicamente diversi. Imparare ad abbracciare gli oggetti convessi senza anchilosarsi una caviglia e senza schiacciare troppo il volto contro il vetro sporcandolo di respiri caldi e curiosità. E i paradossi stoici sul divenire dei conigli parlanti. E i libri consigliati da attori balbuzienti, ciechi ed obesi. E gli esercizi di stile con cui riproporrò le mie stesse parole cambiando tutto ciò che le circonda. Che poi forse metà della comunicazione dipende da quello, e l’altra metà dal tipo di scarpe che indossi. Tu ascolteresti tutto ciò. Intervallando i miei silenzi parlando dei compiti di matematica di due anni fa’. Tirando su col naso o colpi di tosse solo per disturbare i miei film mentali. Masticando uva bianca prima che anch’essa diventi fuori stagione.

IO NEI RACCONTI NON BEVO MAI

Grazie M.P.

La linea gialla delimitava l’area che ospitava i bagni alla turca, per favore mantenere la distanza in modo da agevolare le operazioni e mantenere una certa composta discrezione e io non l’avevo mai visto un cartello dilungarsi in questo modo, ci mancavano solo i commenti poco sarcastici di un indelebile blu a completare il romanzo a puntate come note posticce a piedi pagina. Mi ricordò non troppo fantasiosamente in un naufragio di lucidità l’immagine di un ipotetico indomani mattina ad abbracciare le valige flosce di oggetti dimenticati a casa fino a sollevarle all’altezza degli scalini del vagone 7, un vagone a caso, li dove il treno si fermava ad interrompere le mie solite divagazioni estemporanee sui balconi dei palazzi di fronte in cui cercavo di scorgere una linea di interpretazione momentanea che mi offrisse uno sguardo immaginifico sugli ipotetici abitatori, sempre che non me li trovassi di fronte a stendere il bucato in canottiera a materializzare ogni dubbio o sempre che non mi trovassi un orizzonte di aperta campagna in cui non mi restava che sbriciolare ogni mia mania deduttivo-indagativa e riqualificare il senso stesso del mio ricordo-proiezione futuro:  oltrepasso la linea ormai morsi e sbavature ma solo perché da li ho una visione completa sul disordine dei lavandini, dev’essermi caduto qualcosa dalla tasca mentre tiravo fuori il fazzoletto, mentre mi asciugavo il viso appena lavato, mentre mi accorgevo che l’asciugatore era guasto, mentre richiudevo il rubinetto con tiepidi movimenti igienici, mentre mi tiravo acqua in viso per recuperare ore di sonno inesistenti e un po’ di credibilità di fronte all’immagine che andavo distinguendo di fronte a me e anche di fronte al tizio che era appena uscito dal bagno che sembrava essersi liberatamente rifiutato di lavarsi le mani più per evitare la mia vicinanza che per pigrizia o diseducazione, si che magari se mi sistemo decentemente quello ritorna ed ovvia alla sua inottemperanza (con questa parola l’autore ci proietta nel campo esperienziale dei cartelli onnipresenti nelle aree di interscambio fra un vagone e l’altro, sempre l’indomani mattina, sempre abbracciando le valige mentre mentalmente sbraita un’espressione molto disinvolta e col piede tenta di aprire una porta strettissima che divaricherà facendo perno con la schiena gettandosi verso un futuro migliore in un vagone presumibilmente privo di suonatori di fisarmonica o di camminatori coi calzini al vento) insomma il mio fabbisogno paranoico giornaliero evidentemente non pienamente appagato esige che io sia immotivatamente convinto che qualcosa di importante mi sia caduto dalla tasca. Questo per la semplice constatazione ordinaria che nelle tasche frontali non abbia nulla escludendo un paio di scontrini regrediti al livello di palline indecifrabili. Dai bagni un odore di stazione, di pozze sospette da sottopassaggio, dei lunghi passi fatti per evitarle e salti indomiti delle valigie a carico. Quando mi abbasso fa ancora tutto più schifo, mi piego per sondare il pavimento di pedate e impronte e scarpe, come se ci fosse del fango, come se non fossimo in pieno centro ma in un bar piovoso con ingresso sterrato e tanto di giornali sul pavimento d’ingresso che nessuno sembra dargli molta importanza, fatta esclusione del tipo profondamente colpito dall’articolo estivo sull’incipiente siccità che sosta ebete per qualche secondo prima di accorgersi che la data è di sei anni prima, e lui sei anni prima era da tutt’altra parte, e a far riaffiorare i ricordi finisce per rimanere in quella posizione, ebete, finché qualcuno da dentro non caccia un urlo perché sarebbe anche il caso di chiudere la porta che fa freddo. Io dalla porta dietro di me sento degli evidenti spasmi di cedimento gastroenterico. E quando mi volto capisco il motivo della linea gialla, che le porte sono devastate da chissà quale rissa o gesto immotivato, o forse è solo legno marcio con le sue crepe di morsi, legno laccato di grigio come le porte di una scuola, o quelle di un bagno pubblico. E‘ lei dentro piegata a inghiottire fuori il disordine umorale interiore. E’ lei che mi fa dubitare di essere entrato nel bagno giusto. E non sarei comunque l’unico ad aver sbagliato, io almeno mi sono lavato le mani, e comunque sulla destra ci sono gli orinatoi quindi signorina mi dispiace molto ma E’ lei che è pregata cortesemente di spostarsi nel locale accanto dove potrà proseguire in piena libertà il suo rigurgito fisiologico. E’ lei di cui riesco a distinguere solo i capelli, e le mani aggrappate alla tavoletta alzata, e al termine di una parentesi igienistica in cui un documentario mostra tramite una grafica sovraesposta l’evolversi esponenziale di una popolazione di batteri dal nome in latino, e di uno spezzone di filmato in cui prima di far utilizzare il mio bagno do una passata veloce con lo spray disinfettante, mi soffermo su quelle mani, che normalmente sono l’ultima cosa che guardo in una persona a meno che non soffrano di un’eccessiva sudorazione, e penso che un’ipotetica persona che a un’ipotetica domanda sulla parte del corpo che per prima guarda in una donna risponda “le mani” (al terzo posto dopo occhi e scarpe secondo un recente sondaggio) quelle mani li, con quello smalto e le dita che nel mio vocabolario interiore vengono immediatamente inserite come foto mancante alla voce “affusolato” benché cosparse di batteri prolificantisi. Insomma quelle mani li  dovrebbero piacere. Per la gioia di chi al secondo posto ha scelto “le scarpe” dovrei piegarmi a guardare sotto, li dove finisce la porta, ma non mi sembra molto educato e allora torno discretamente al lavandino, riprendendo a lavarmi le mani, riprendendo da dove ero rimasto, aspettandomi di vederla uscire dallo specchio, in un biancore sconvolto, chiedere scusa ai presenti, che poi sarei io, e avvicinarsi al rubinetto a sciacquarsi colpevolmente timida la bocca, stupendosi ma senza esagerare del trucco colato dalla frangetta disarmonica. Invece dopo qualche minuto di temporeggiamento: variazioni sul tema, la sua voce “senti io non lo so che razza di merda hai toccato ma secondo me adesso le mani le hai pulite quindi passami qualche metro di carta per pulirmi e graziosamente evita di guardarmi quando esco, che se mi faccio schifo voglio essere la prima a pensarlo”. Io la prima cosa che guardo in una donna è la voce (5,2% degli uomini, dati alla mano) quindi quando chiudo gli occhi e le passo una palla arrotolata di carta potrei esserne praticamente già innamorato. Come in una scena di un film presumibilmente girato da Antonioni lei adesso parla con la mia nuca riflessa nello specchio mentre io le do le spalle e frugando nelle tasche nervosamente finisco per ricordarmi che stavo cercando qualcosa.  E mentre dentro di se riflette sul fatto che in un film presumibilmente girato da Antonioni io dovrei somigliare un po’ di più ad Alain Delon mi tira su un discorso strano sul fatto che non devo prenderla per una persona superficiale, che in realtà lei negli ultimi tempi  beve solo per vomitare,per quella liberazione dolorosa e incontenibile, per i cinque minuti di lucidità che sta passando ora, per il buco nello stomaco, per il dolore sotto le mascelle provocato dalla tensione muscolare, per la gola acida di sputi, perché con quel gesto si svuota metaforicamente di tutto quello che si tiene dentro, è come URLARE mi dice, mi dice che in fondo ognuno ha il suo grido di disapprovazione, mi dice che si chiama Valentina, mi dice che non potrebbe sopportare l’idea di cacciarsi un dito in gola, mi dice che non potrebbe sopportare l’idea di urlare davvero, magari in faccia a qualcuno e magari ferirlo, col solo scopo di sfogarsi. Mi dice che adesso è serena e che il gruppo che ha suonato sta sera non riusciva neanche a sentirlo. Mi dice che adesso è serena anche con un po’ di mal di testa e la stanchezza dovunque “mi succede al massimo una volta al mese, di solito prima di ritornarmene a casa dai miei, così evito di portarmi dietro pesi inutili”.  Gli dico che è il motivo meno stupido che ho sentito fin’ora, fra i motivi per cui bere. Che è molto meno stupido del motivo per cui io sta sera non ho toccato Alcool  ed “è molto meno stupido del motivo per cui questa sera proprio non mi va di parlarne” . Penso che adesso vuole rimanersene da sola, allora esco stringendogli appena un po’ di conforto sulla spalla mentre la guardo in faccia per la prima volta. Esco prima che possa trovare il modo di contattarla, prima di chiederle graziosamente il numero. Io domani nella carrozza senza suonatori di fisarmonica di sicuro la ritrovo, ho riconosciuto l’accento, a costo di farmi tutti i vagoni a piedi con le valige in mano e le ginocchia a sbattere per farmi spazio fra le smorfie e gli insulti. Mostrare un’espressione molto disinvolta mentre le chiedo se il posto accanto a lei è libero. Ognuno ha il suo grido di disapprovazione, ognuno la sua dichiarazione silenziosa d’aiuto.

mercoledì 22 settembre 2010

A noi invece ha parlato solo dei biscotti

erano molte di più.

C'è un bel silenzio qui. una volta abituati al condizionatore quando lo spengono sembra di raggiungere un livello più alto di afonia. come  SE qualcosa CHE si svuota. che poi chissà di chi è quell'accendino giallo. forse del tizio col sorriso da RAI 1. da grande voglio costruire palazzi, opere architettoniche ambiziose folli di creatività. però voglio delegare qualcun altro come responsabile. fargli curare l'aspetto burocratico. e anche le certificazioni di conformità. insomma se poi quello che costruisco crolla non voglio che il merito spetti a me. grazie lo stesso. Oggi ho scritto che noi siamo intuizioni. anzi che siamo le parole inadatte che si arrampicano e tendono a definirle e a significarle. mi sembrava saggio.  Passavo in una via del centro. davanti ad un luogo di preghiera musulmano. sulla porta c'è un muro di scarpe accatastate, e io non ho neanche il tempo di elaborare l'immagine che mi arriva addosso un vento ingombrante di piedi e calzini arrotolati. ho pensato che fosse la definizione giusta di intuizione. ho pensato che di fronte a un intuizione (o forse sarebbe più giusto dire attorno) la prima sensazione è di stupore e compiacimento, la seconda e frustrazione di non avere il modo giusto di trasmetterla. perchè le idee sono colorate e noi abbiamo solo parole in bianco e nero. perchè l'intuizione è un salto, come ritrovarsi dall'altra parte di un ponte distrutto senza sapere COME e doverlo spiegare a chi è rimasto all'altro capo. Un lampo di neuroni che per qualche istante invade all'unisono un mosaico di immagini sfiorandole appena. il diaframma che si restringe per contenerlo. e infine di nuovo il buio. per spiegare un intuizione mi hanno detto che ci serve un testo allegorico-evocativo. uno Zarathustra o una bibbia, o le Upanishad. mi hanno detto che è il massimo a cui siamo arrivati. 

P.S. però fra un po' arrivano i nuovi Barbari.


sabato 18 settembre 2010

Mi sono appena accorto che manca il post che dava il titolo al blog




10 Giugno 2009





...indubbiamente responsabile di un solitario indelebile affronto di quella che sembrava essere da molto più vicina ad un ultimo gracile effimero onomatopeico toc toc 
era l'esperienza generale a favorire l'intercorrersi inedito di boiccottate similitudini..e nel buio piano piano perdevi la concezione della presenza dei tasti, eppure i tasti erano sempre li dove le tue dita ormai incosciamente indirettamente inconsapevolmente avevano imparato che fosssero, un giorno t'eri reso conto che a forza di battere sulla tastiera le tue mani e la tua testa avevano ingenuamente interiorizzato la posizione delle lettere.. ed era l'ingenuità e l'involontarietà della nuova capacità acqistata ad intessere quel senso di meraviglia.. le foglie aumentano nel fragore ottuso di un gemito solo tardivamente compreso solo tardivamente assimiliato analizzato interiorizzato e illeggitimamente rimasto solo, insieme all'inettidtudine minacciosa di un minimo movimento facciale e alla spossatezza e la spaesatezza di un subitaneo slancio d'orgoglio.. non conoscevo la pronuncia di migliaia di parole sconosciute eppure mi riservavo il diritto di condizionare le mie ombre con affascinanti disquisizioni lessicali comunemente fuori luogo e fuori tema...nella povera ricorrenza di occhiate e moderni sentimentalismi sentivo tragicomiche esclamazioni di sotterfugio ed esibivo timidamente un vecchio passaporto d'oltralpe fabbricato provvisoriamente per celare ineccepibili ma allo stesso tempo ignare supposizioni manipolate... spesso l'articolata paesaggistica sovietica ricorda veloci e e fugaci rimescolanze di moderati e superflui pettegolezzi.. esauditi gli ultimi e i penultimi ordini imposti scorgo non lontano dall'indecenza una nuvola di paraffina e fumo di sigari condensato volare intorno a lampioni di umile ottone... il vocabolario concluse la sua spartizione equa dello scibile insolvendo però la sua origine di continuatore e divulgatore di un immeritata sapienza. 




...Puoi anche scrivere a matita ma se non hai una gomma per cancellare il segno resta lo stesso..

giovedì 16 settembre 2010

Se una notte di fine estate un viaggiatore - Parte 2

Vagare non era mai stato il nostro forte. A un certo punto arrivarono per portarci via, ma noi non avevamo decisamente voglia di sorbirci di nuovo tutta una serie di ramanzine accondiscendenti sul ruolo nel moderno delle lavate di capo. Allora io mi infilai in un vicolo composto dai pavimenti dei palazzi soprastanti. In vicolo che in foto era un posto bellissimo. Però non c'era nessuno. Nelle foto quando non c'è nessuno i posti sono plasticamente più belli. Nella realtà quando non c'è nessuno i posti sono plasticamente più vuoti. Percorsi le scale in discesa. In cima c'era un piatto abbandonato da un pezzo di torta. Nel piatto c'era rimasta una ciliegia glassata. Ho tirato avanti mentre ripensavo alla bellezza dei reduci, e all'interdizione suscitata dai sussulti. Nessuno sembrava curarsi del piatto e un venditore di rose finiva per calpestarlo innocentemente. Le premesse conclusive furono tratte senza troppi preamboli, raccolsi il piatto e lo buttai nell'indifferenziata. Sopra c'era spiaccicato un petalo rosso. L'ombra si girò per farmi i complimenti e soggiunse che al giorno d'oggi è raro vedere un gesto intriso di sommessa euforia combinato con un clima di disaccordo estatico.  Tutto questo solo perché sorridevo grattandomi la guancia. La prossima volta mi gratto la fronte voglio vedere cosa ci trova da ridire. Però magari era un complimento. La prossima volta sono più cauto e mi riprometto di detestare solo i gradini sbeccati. Oggi stranamente ci ho messo anche qualche azione. Domani inserisco anche delle descrizioni verosimili dell'abbigliamento.  Non sarebbe una cattiva idea immaginarsi come assorbiti dal tempo. Spenti d'entusiasmo a raccattare le favole della notte per differenziarle dalla beata turpitudine di complessi autoindotti. Magari lo guardo perché sono convinto che solo in questo modo lui possa vedermi. Come gli orsi. No, forse gli orsi ti credono morto se ti stendi. C'era un qualche racconto sul libro delle elementari. Magari avrebbero dovuto aggiungere il suggerimento "non provatelo a casa. E neanche nei parchi comunali"  io comunque mi sono sdraiato per terra, così quando è arrivato il camioncino lampeggiante della nettezza ha fatto finta di vedermi e ha semplicemente virato a sinistra, a consolare un gruppo di cartoni della pizza, unti e sbriciolati. Passato il pericolo mi sono ricordato che magari era il caso di tornare a fare ciò che stavo facendo. Dormire.

Se una notte di fine estate un viaggiatore - Parte 1


Chi è che hai salutato? Non mi ricordo. Volevo prendere una sedia perché non avevo posto. Io vado a casa. Io vado a lavorare. Io vado a Roma. Che poi e tutta una storia silenziosa sulla consequenzialità dei bisogni. Ti pare che vado in giro a ed esibirmi coi pattini. Quello lo puoi tenere basta che ti ricordi di considerare il ritmo della svalutazione affettiva. Io non le rimetto a posto mai le stampelle. Anche se ho telefonato già da parecchio. Credo che a certi livelli un volto agitato comunichi molto meglio di un piatto di pomodori al ragù. Voglio smettere di indossare calzini nascosti. Con l'immaginazione può dipingere un canguro che striscia, non mi ricordo se i canguri sono quelli con una gobba sola. Se hanno due gobbe si chiamano nembiferi. L'ho ascoltato parlare per un po'  e alla fine ho dedotto che la sua alacrità poteva essere ricondotta all'uso eccessivo di tovaglioli. Non giustificare il tuo aspetto trasandato mostrando com'eri vestito sulla carta di identità, esibendo a gran voce il fatto che alla voce segni particolari l'impiegata dell'anagrafe abbia ben pensato di scriverci NESSUNO. Ti pare che mostro certe cose a un'impiegata mai vista e conosciuta. Però sarebbe stato utile. Io non ho mai visto nessuno scriverci. Forse solo quando avevano fretta di riconoscere il proprio sostanziale miglioramento interiore. Però l'importanza svalutava, insieme alla recessione del gruppo interiore timido che finiva per palesarsi con smottamenti del capo e regie improvvisate capeggiate dal gomito sinistro. Io voglio smettere di lanciare invettive contro i tavoli dei bar con una gamba sola, che si reggono ancorati con delle viti. E solo per quello. Anche loro hanno delle esigenze di stabilità. Io però invece di starmene fermo comincio a pensare che le docce fredde contengano un apporto calorico molto equilibrato e contundente. Se hai letto fino a qui non ti scoraggiare perché manca poco. Poi torno a dormire lo giuro. La musica ormai è un concetto palindromo, puoi ascoltarla quattro volte e non ti ricorderai mai l'evoluzione effettiva dei passaggi a ritroso della parte ritmica. Oggi avevo finito gli intervalli di silenzio. Allora mi sono rivolto all'omino che diffonde i comunicati stampa e gli ho chiesto gentilmente di rimandare a domani l'inesattezza dei contenuti di quel discorso circospetto e sbadato. Domani magari faccio la stessa cosa oppure metto dei pali coi manifesti Wanted. 

Studiare il rumore nelle trasmissioni radio


Fissare la stessa pagina per un ora la stessa riga incomprensibilmente vuota a eludere le promesse del mattino mentre i libri continuano ad essere venduti per merito del titolo e del disegno in quarta di copertina. Ho scritto sulle mie dita che era tardi, ho scritto sulle mie dita che la tua visione è solo un privilegio circostanziale capace unicamente di appiattire la tenace caducità di un invasione frontale. Alla fine hai scoperto che le bilance non si scompongono senza un motivo, anche se sarebbe decisamente comodo disturbare il loro lento equilibrio senza sporcarsi le mani di cera fredda. comincia col sostenere ogni tua irrequietezza con negazioni poco inverosimili e porta come esempio solo il tuo vissuto impersonale tinto di invenzioni magistralmente infondate. Termina riempiendo gli spazi, unendo spasmodicamente le costellazioni di una superficialità abissale. La ragazza che leggeva i libri per conoscere le persone incontrò un ragazzo che conosceva le persone per leggerci (in loro) dei libri, lei sbuffò, lui strinse le spalle. Lui non voleva rientrare in un canone, lei non voleva essere letta. 

Vedere uno scoiattolo basta per dire che ce ne sono due?

domenica 12 settembre 2010

A lungo mi coricai (non) di buon ora.

ohi. sempre qui a parlare di Proust, l'avessi letto almeno. e invece continui a citarlo. a volte il medium parola crolla. decisamente sconfitto dall'inesattezza delle congiunture condizionali. per stare tranquillo mantieniti sulla corsia esterna di una rotonda. sono situazioni cosi drastiche. rotture improvvise nell'ordine del traffico urbano. accadono ogni giorno mentre noi fissiamo beati la marmitta del nostro predecessore. ad altri. sono triste anche quando ho ragione. scrivi un bel discorso di trenta righe ma ricordati di non nominare, neanche da lontano, la parola "disfatta". non dovresti neanche pensarla. se neanche la pensi è decisamente perfetto. potrei anche esserne fiero. Freud avrebbe imbastito tutto un suo ragionamento sul funzionamento dei meccanismi di rimozione. Se servisse a scrivere un bellissimo libro giallo bacerei un cavallo. nella lezione di oggi impareremo a parlare di altro, continuando a parlare di ciò di cui tendenzialmente sentivamo il bisogno di parlare che in realtà alla luce di un ragionamento trasparentemente oculato si dimostra diverso di molto dall' "altro" sopracitato. come fare un dipinto sul breccino. no è una bella immagine ma non centra nulla. come fare un dipinto con dei ramoscelli su un foglio d'erba. foglio d'erba potevi anche risparmiartela. verde su verde poi. neanche si vedrebbe nulla. adesso compilo un modulo protocollato da consegnare all'ufficio reclami. ci scrivo giusto "perchè?" la sceneggiatura è stata gentilmente offerta da un certo Fellini. cancellate la parola "frustrato" dalla vostra mente. è solo un lapsus di minuti.

martedì 7 settembre 2010

Proust alle giostre leggere

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Precipitare nell’equilibrio, zittire i propri soliloqui con la devastante energia evocativa delle parole pronunciate dai saggi annusatori di esperienze placidamente camuffate in capoversi così lenti e placidamente lenti. E questo non è più il tempo delle passeggiate al parco. Al parco ci si va per correre, sciogliendo nei muscoli le esigenze di velocità e di mutamento. Occhi aperti o meno, cadremo lo stesso al termine del sentiero che si affaccia sul nulla. Perché è li che siamo spinti. A quel punto forse rimpiangeremo di non avere un sorriso ebete in corrispondenza dell’ultimo passo verso il precipizio. A quel punto forse proveremo a chiudere gli occhi, sbarrati dalla paura, spezzati dalla paura, disciolti nella paura. Non ci riuscirà di farlo per abitudine, e questo sarà il nostro merito. Il nostro unico vanto recondito urlato nella caduta, l’istante in cui le parole non trovano una bocca a fermarle, ma solo vento tiepido e succursali ironiche di splendore. Sapere che c’è un motivo non ci aiuta a trovarlo. Magari ci cadrà in testa un giorno o l’altro, magari svuotando la sacca di un aspirapolvere, in mezzo a uno starnuto a grattarsi con la mano la nuca, mentre osserviamo la parte di noi che muore giorno per giorno giacere indistinguibile dalle spoglie del mondo in perfetta armonia, magari nell’istante in cui i fuochi d’artificio si confondono con le stelle e la cupa esplosione del tuono con la loro leggera espansione e caduta invano a cercarne i resti in caduta che si spengono nello scherno della volta celeste immutata. Sapere che si chiama Godot renderà solo più inconsapevole la mia attesa. E mi hanno anche rubato una scarpa. Ho cambiato idea, senza cambiare mente. No, gli inglesi non sono capaci. Da oggi scivolo più spesso, da quando ho smesso di controllare che le scarpe siano allacciate e ho iniziato semplicemente a domandarmi se lo fossero. Senza abbassare lo sguardo però, la realtà il respiro di quello che penso mescolato col racconto di qualcun altro. E quindi continuo a chiedermi se le mie scarpe siano allacciate o meno. E cado.

venerdì 3 settembre 2010

Il primo giovedì del mondo.

17bb

Il primo giovedì del mondo indossavo la mia maglietta preferita, quella degli eventi importanti, quella piena di buchi provocati da non so che cosa. Vintage. E un maglioncino di lana. Il primo giovedì del mondo ho pronunciato il mio nome con imbarazzo, perché era buio e molta gente stava a guardare. Una telecamera ha ripreso tutta la serata. La serata era dedicata alla follia creatrice. Un giorno esploderemo anche noi. Come secchi di vernice colorata. Fino ad allora subiremo i nostri blocchi emotivi, dannate incursioni del razionale, ditemi cosa c’è di banale. Datemi modo di distinguere quello che va fatto da quello che è già stato fatto. Cosa te ne fai poi della pazzia bruciata di un’individualità consunta, pensi che ci sia della bellezza in questo. Pensi che basti il veleno a sedare la banalità. L’armadietto bloccato si è semplicemente spalancato con noncuranza quando ho chiesto aiuto a qualcun altro. Dov’eri prima del primo giovedì del mondo. Avevo semplicemente dimenticato di portarmi dietro la borsa con i libri. Da bambino portavo sempre con me un libro, anche quando prendevo lezioni di guida. Il primo giovedì del mondo si aprivano spiragli di nulla e io li ignoravo spudoratamente, come promemoria sul telefonino. Finché non metti la cintura l’indicatore acustico continuerà ad assillarti con voce crescente, qui invece dopo un po’ si placano. Non condivido queste mie invasioni immotivate, e quest’approfondimento mediato. Se ho paura delle distanze faccio qualche passo in avanti, ma non mi ricordo neanche un nome, di tutte le mani strette, in nome di una vicinanza contestualmente celata. Un uomo trasformava migliaia di numeri in frasi bizzarre che sembravano uscite dalle mie considerazioni sconnesse:

“arruffando sentieri dai risvolti metallici risuonava come circospezione declamata
all’orizzonte di cartone che gli era stato imposto di ricordare”

La buccia della frutta non andrebbe mangiata, è li che le tossine vengono immagazzinate. Eppure aneliamo alla bellezza nella scorza, accontentandoci di un esteriorità porosa.

Voglio dei pensieri abbastanza profondi, che rendano anche la pelle splendida.

 

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giovedì 2 settembre 2010

Invettiva toponomastica


sono stufo.
stufo dei passi in soffitta alle quattro di notte a lanciarci il cuscino contro, per non disturbare gli altri, colpire il lampadario che ondeggiava già e cercare le scarpe a tentoni sul lato sbagliato del letto.
stufo di ascoltare la lavatrice rotta utile solamente ad appoggiarci i detersivi e l'accappatoio umido.
stufo della gente che si soffia il naso nei fazzoletti, perchè io non sono capace.
stufo delle rime baciate e un po' meno di quelle concatenate.
sono stufo di chi indossa i calzini di due colori differenti e poi prentende anche di avere l'alito buono
dei tasti scambiati sulle macchine da scrivere che riempono le mie poesie di v doppie inutili
degli spacciatori ai lati delle scalette che sembrano volerti imboccare a forza
di scordarmi ogni giorno di ricomprare il dentifricio e aprirlo con le forbici per cercare cioò che è rimasto
della solita gente ma con facce diverse, della gente diversa ma con gli stessi nomi, degli stessi nomi con diverse implicazioni psicosomatiche, delle implicazioni psicosomatiche proiettate in innamoramenti continui di capelli corti neri, dei capelli corti neri tagliati ancora più corti per l'arrivo della nuova stagione, della nuova splendida stagione che prospetta di essere narrata abbondantemente, delle narrazioni abbondanti che sfociano in mesmerismi ambulanti, dei mesmerismi ambulanti che ingnoro proprio cosa volessi dire, di quello che voglio dire che molto spesso è indice di dissociazione interiore, della dissociazione interiore abbondantemente studiata da sigmun freud e da carl gustav jung, di carl gustav jung che era quello degli archetipi, degli archetipi ricorrenti come del resto i topos, dei topos dellle canzoni degli aftehours, delle canzoni degli afterhours che ogni tanto ne esce fuori una nuova che ignoravo completamente, delle cose che ignoro completamente e di quelle che invece capisco troppo bene non capendole affatto, di quello che non capisco affatto perchè forse la soluzione non è in quello ma nella faccia, nella faccia ogni mattina allo specchio diversa come se fossero passati anni al risveglio, degli anni del risveglio quelli in cui ho preso coscenza di me stesso, della coscenza di me stesso la stessa che mi attira negli altri, degli altri che per Sartre sono l'inferno, dell'inferno del nulla interiore e posteriore, dell'interiorità posteriore che si ammira solo girandoci intorno, da chi ci gira intorno senza guardarti e si segna i pregiudizi su un blocco notes, dei blocco notes ideali quelli per prenderci una marea di appunti belli da rileggere e da ripassare, dei ripassi in biblioteca coi libri di poesia davanti, dei libri di poesia che non riesco a cogliere del tutto nella profondità, della profondità in cui cerchiamo il senso, del senso degli incidenti autostadali con la solita gente, della solita gente ma con facce diverse, della gente diversa ma con gli stessi nomi...

stufo dei loop infiniti.

mercoledì 1 settembre 2010

Riempire un vecchio libretto delle assenze con scuse inventate.

karl-marx

Maledetto. Donna con gli occhi che non mi ricordo. E la voce piccola. Azzurro. Non c’è nessuna logicità in questo. Però la pelle mi pesa, potrebbe scivolare semplicemente da un momento all’altro, cade verso il basso. Prima o poi avrò le rughe. E la pelle cadente. Intanto osservo gli altri invecchiare. Con le loro giacche di pelle e i loro completi eleganti. Io sono con la barba di Marx, potrei sembrare vecchio. I sottotitoli in ritardo rispetto alla voce, la voce in ritardo rispetto alle labbra, le labbra inzeppate di pensieri a pressarsi in fondo all’uscita.  In ogni caso andiamo avanti, qualcosa da rubare c’è sempre, prendi tutto tu. Di queste assenze rimandate all’autunno. La confezione di posate di plastica prendila tu, io bado alla sovversione. Forse decolleremo in banali vortici di disattenzioni. I bracciali che porto al polso rimangono finché non si slacciano la prima volta, dopo non li ho più visti. Se fosse un incontro qualunque, al supermercato, fingerei di cercare il dentifricio al reparto surgelati, osserverei la tua mano ritirarsi dal freddo dello scaffale, ruvida di condensa. Come impedirlo. Assumi l’atteggiamento scialbo di un venditore di orologi. Lui non si accorge di vendere il tempo. Altrimenti cerchiamo un locale più grande. Per acquisire maggiore visibilità. Io non l’affronto, io l’ultima volta che mi hanno chiesto il nome l’ho letto sulla carta d’identità, io sono fuggito senza preavviso verso un manto di scale che non ho neanche avuto il coraggio di salire. Come I pupazzi dei parchi giochi quando fanno finta di tapparsi gli occhi con le mani. e in realtà gli occhi gli occhi ce li hanno all’altezza della bocca. Nausea come rigetto di qualcosa che si agita da dentro. Oppure. Nausea come rifiuto di qualcosa al di fuori di noi. Cosa c’è di speciale nel primo giorno del mese, non ho neanche un calendario da strappare. Però quest’aria l’adoro.  Dovremo imparare dai parcheggi inventati, quando si ha fretta di sistemarsi, quando ci spingiamo al limite dello scontro per renderci consapevoli, e sistemarci I capelli dietro alle orecchie. Tutto nello stesso specchio. Da quale tassello di diversità proviene questo rancore, da quale altro l’astio per le convenzioni, per la banalità. io il telefono lo lascio squillare indifferente.  io forse degli altri odio soltanto gli stessi difetti che ho io.

quando sarai grande non dare mai confidenza agli sconosciuti, al massimo donagli qualcosa di te.