domenica 21 agosto 2011

Soltanto una frase bella da tenere in bocca



L’aria balbettava dai finestrini spalancati con l’asfalto disegnato su mezza Italia dall’A1, rettilineo come i confini dei paesi desertici nelle cartine politiche, cadere verso il sud. La testa scivola nel sudore e si attacca al braccio-cuscino che si attacca allo scatolone del cibo che sprofonda nel sedile di mezzo, incastrato fra chitarra, pentole, atlante stradale, e una cassa di pomodori pachino da mangiare come ciliegie acide. I nostri capelli sono bandiere sfilacciate e la musica ha un frastuono di mare, un paio d’occhiali con le lenti gialle mettono addosso una vivacità di colori accesi e il Vesuvio è un vulcano di farina per dolci dopo la mano tuffata da un bambino. In quel momento ci saresti stata bene anche tu. E poi correre in mezzo al paese distratto  e sospettoso sventolando mantelli di spugna, continuare a correre mentre il cemento diventa scale, che diventano sabbia e ciottoli a incastrarsi fra le dita dei piedi, continuare a correre seminando vestiti in un trasloco incurante e arrivare all’acqua senza una qualche superficie di separazione escluso un unico istante di consapevolezza spalmata lungo tutto il corpo, come avere orecchie ovunque. Come la polvere del pomeriggio nei campi, a cantare di continuo per raggirare il tempo, la polvere che si disintegra a contatto col mare, semplicemente trasparente di fondali appannati. In quel momento ci saresti stata bene anche tu, oppure sdraiata e immersa a veder sbocciare il sole come un fiore o un fungo, prima che la sorpresa diventi gelida fuga sulla spiaggia, accartocciati di fronte a un falò raccattato. Saresti stata bene anche davanti alla chiesa di Palmi, all’uscita della processione della Madonna, spettatori dentro un film di Tornatore, con la banda di paese, tutti fratelli con gli occhi azzurro-vetro, e i vecchi sui balconi come piante da esporre per la festa, un’epoca antica che si rimette in scena senza farsi domande, con un esplosione di coriandoli in cielo, fuochi d’artificio e sorrisi posticci.

domenica 24 luglio 2011

Se andate in due direzioni opposte vi incontrate di sicuro, se andate dalla stessa parte non è detto



Si, quando vedo questo giardino mi viene sempre in mente di disegnartici in mezzo. Da piccolo sarei stato contento di vedere che gli alberi crescendo hanno formato una specie di soffitto, a guardarlo dal basso una tessera di bosco. E adesso c’è questa veranda e io me ne sto seduto come davanti a un film sulla mia infanzia. Tre settimane che non tornavo, ogni volta piccole differenze, il piano di sotto imbiancato e la parete del pianoforte talmente candida e vuota d’altro che disorienta, con l’ombra di una lampada spoglia che è una gabbia dell’ennesimo quadro di Magritte, e suonarlo, il pianoforte, che adesso ha tutta un’altra giustificazione e segreto, e un’interlocutrice assorta, e assente. “Nei giorni in cui piove col sole le volpi celebrano i loro matrimoni, e bisogna stare molto attenti a non incontrarle” ogni storia nasce da una disobbedienza, è un principio fisso, disobbedire genera storie che si espandono, e rompono le forme in cui le regole le avrebbero altrimenti relegate. Sartre sta parlando dell’importanza delle storie nella nostra vita. Del fatto che spesso quando viviamo, lo facciamo in funzione di quello che poi racconteremo. E che poi o si vive, o si racconta, sono due atti separati. E allora pensavo che sono un po’ tagliato fuori da questo meccanismo visto che non so neanche spiegare le regole di un gioco per bambini, o descrivere in modo lineare la trama di un film. E allora devo far attenzione a non confondere la mia vita con la mia storia. Certe esperienze vanno vissute per se stessi, o per essere raccontate, visto che quello che rimane poi, è solo una narrazione? E cosa c’è da raccontare di noi, di enormi presenti sospesi, a sciogliersi insieme come parole bagnate, a fluire da una stanza all’altra come in uno dei miei racconti senza svolgimento? L’altra notte la luna era una fetta di limone su un calice di montagne e tu l’avresti capito subito. E allora mi manchi. 

sabato 11 giugno 2011

Attenzione disacerbo

mi manchi come i carri merce ai tempi dei treni merce e non a caso le voci si confondono come attenzioni cupe. sarebbero miserabili. se non che il disordine. lo stupido complesso ignaro totalizzante e a tratti propedeutico. come quando la sopportazione spinge a identificarsi con l'unico soggetto inerente al caso. le ultime. io coi miei tratti fuori dalla scena in una silloge di pulsioni inermi. io senza alcuna varietà di significato, identico al primo dei possibili banchi di prova, lei parla con la voce dei rubinetti, ma non è l'unica considerazione data dall'ostruzione dei veicoli. il pilastro della scelta sorge come un'idea solidificata di marmitte sradicate dall'umida precisione di una cataratta di solitudine. io ci vedo con le mani, ma non ti vedo perchè non posso sfiorarti, da settimane almeno. ricordi rotolanti fino all'ultimo gradino, dove l'incipiente abbondanza di dubbi scava ennesime incomprensioni. le foto spuntano da ogni angolo, da ogni angolo cottura, da ogni equilibrata e fatiscente struttura. torna come i piatti a scolare sopra al lavandino smacchiato. torna come le prime luci dopo i salti che fanno i ciottoli sull'acqua di cerchi e ponti con la ghiaia a trasmettere lucidità e armonia. io. lo stesso. eventualmente.

sabato 21 maggio 2011

L'uomo di Neanderthal


L’uomo di Neandertal viveva allegramente nelle vaste distese del Caucaso, o forse più dalle parti dell’India, (io in realtà non l’ho mai capito di preciso dove si trovi il Caucaso). L’uomo di Neandertal rispettava tutte le leggi della fisica, quando inciampava cadeva a terra, quando aveva fame cercava del cibo, quando aveva freddo si copriva, e se aveva sonno dormiva, l’unica cosa che per adesso lo lasciava impassibile era l’accrescimento dei peli superflui, ne aveva davvero molti, ma non ci badava, tanto alla donna di Neandertal piaceva così com’era. anche con le unghie incarnite.

Reagiva, l’uomo di Neandertal. Era una serie di risposte agli stimoli esterni. Rispetto agli altri animali era solo più originale. Aveva una moltitudine di accessori. utensili, vestiti fatti a mano. Se era proprio estroso si metteva addirittura un osso fra i capelli. E avendo il pollice opponibile poteva gareggiare con gli altri uomini di Neandertal a quel gioco in cui vince chi col proprio pollice acciacca il pollice dell’altro, pugno contro pugno. Era così che si faceva bello di fronte alla donna di Neandertal.

Un giorno un uomo di Neandertal (per comodità lo chiameremo amichevolmente Ugo) mentre correva baldanzoso attraverso la pianura Caucasica, sbatte un piede e le conseguenti unghie incarnite sullo spigolo di un armadio dimenticato chissàdachi. L’urlo che lancia gli risuona nelle orecchie. Poi in testa. Continua a sentirlo anche quando ormai la bocca e chiusa e il dolore è passato. La sua voce in testa. Avremo tutti preferito un modo più elegante, un impulso nato specchiandosi nell’acqua di un limpido lago di montagna, un incontro con la donna di Neandertal più bella di tutto il Caucaso; fatto sta che in quel momento l’uomo di Neandertal Ugo prende coscienza di essere se stesso. La sua voce in testa. Lui è quella voce. Pensieri sconnessi che un giorno, da risposta, diventano domanda. Non muove un altro passo l’uomo di Neandertal. Ugo. Le domande gli implodono in testa, rimbalzano contro pareti senza uscita. E lo congelano. L’uomo di Neandertal si lascia morire di fame. Con la gola strozzata dalla paura, negli occhi anche il minimo movimento esterno era inspiegabilmente lancinante. Col passare del tempo la stessa cosa succede anche agli altri Uomini di Neandertal. Statue mute, obelischi d’incomprensione. Quelli più attaccati alla vita cercavano una soluzione leggendo gli scritti di Nietzsche, con risultati pressoché disastrosi. In pochi decenni la razza si estingue. giusto il tempo, per i più risoluti, di terminare la lettura di “Volontà di Potenza”.

Altre teorie affermano che l’uomo di Neandertal si sia estinto perchè troppo buono.
“era tanto una brava persona”
dicono tutti così.

Cosa succede dopo.

La selezione naturale ha portato allo sviluppo di una specie che riuscisse ad accompagnare a un pensiero strutturato e cosciente la soluzione al problema del senso.
La selezione naturale ha portato  allo sviluppo di una specie che nella maggior parte dei casi riesce a concepire o forse rimandare il problema del senso, come qualcosa al di fuori da se stessi.
La selezione culturale ha portato alla formazione di una narrazione tale da permettere lo sviluppo di un’intuizione comune di divinità.

In realtà negli ultimi tempi, con l’invenzione delle forbicine curve, il problema delle unghie incarnite è stato risolto brillantemente, con conseguente riduzione delle persone aventi piena coscienza di esistere. 

domenica 15 maggio 2011

Caratteri

Volevo guardarti da lontano, adesso che ho un po’ meno paura che tu possa scomparire se mi copro gli occhi con le mani, e quanto devo allontanarmi per ammirarti piccola nella tua interezza, il concetto di bipolarismo è riduttivo, siamo un coacervo di contraddizioni ragionevoli e bisogna soltanto allenarsi il cervello a cogliere vapori di unicità, che poi il cervello principalmente dovrebbe far quello. Sono nel prato dove giocavo da bambino, con gli uccelli che cigolano e il dondolo che cinguetta e le ombre degli uccelli a frugare fra i trifogli, la casa in primavera è ancora mia. Ieri cercavo di insegnare il mio nome a un piccolissimo cugino con gli occhi grandi e neri, ecco io ti insegno il mio nome, ripetilo come se fosse soltanto un suono, che racchiuda quello che ti trovi davanti, pensavo che tutto questo abbia una grande carica simbolica e lui rideva, senza pronunciarmi. E poi c’era il fratellino più grande che chiedeva continuamente “perché” e mangiava le prime ciliegie di maggio e chiedeva accovacciato sul buco di una botte di legno, di uscire fuori al mostro che ci avevo appena infilato, che era timido e parlava con la mia voce fra i denti in falsetto. Credo che da piccolo gli somigliassi, ma lui gioca già a calcio. Al cimitero di paese abbiamo incrociato uno zio di mia madre che si è trasformato nel suo vecchio nonno, forse non siamo che la stessa persona che si declina infinite volte e il tizio che vedo muoversi dietro la finestra, dal balcone della cucina, sono io in un altro momento della mia vita, reincarnazione continua e simultanea di un unico uomo e di un'unica donna che non fanno altro che fluire ed evolversi, e a volte riescono anche a incontrarsi, che è una sintesi ulteriore, di unicità.

martedì 8 marzo 2011

Dormire in una stanza senza finestre

Mentre ti guardavo, la voce di un’altra età, le mani calate sul viso, per gioco, pensavo che sarebbe un po’ un peccato, un po’ un oltraggio all’intelligenza (dis)ordinatrice degli incontri, un’illegalità bella e buona, complici le nostre immaturità distinte e così innocentemente evidenti, una certa goffaggine a far da palo e sobillare reticenze e il resto del mondo barricato fuori, coi fotografi e i curiosi, nell’attesa di un evento che si consumerà in silenzio e all’insaputa delle autorità competenti. Un peccato, un oltraggio, un’illegalità, non rimandare per quanto possibile il momento degli applausi, quando la gente discorre disinvolta come se il palco si fosse improvvisamente dissolto sotto l’ondata dei loro colpi, non contemplare frastornati le ultime tracce di bianco illuminato e candido, che è anche un riscatto e una possibilità di rincominciarsi daccapo in quanto entità nuova.
Lei dormiva in un terrazzo in cui c’era spazio soltanto per il letto, e una parete di sbarre a riparare le cadute, o la loro semplice proiezione in timore, la divorava quell’istante in cui uno strappo le aveva mostrato l’eventualità in cui fossero finite le parole che parlavano di loro, ne rifuggiva il dissidio della conferma nelle complicazioni della distanza.
Lui osservava un torrente, che era il torrente tipo di ogni film d’azione americano cioè, ogni volta che serviva una scena con un torrente, andavano a inquadrare quello. Gliel’avevano fatto notare mostrandogli le foto di vari film con un torrente in scena, ed effettivamente combaciavano tutti. E non dormiva. Le grida di aiuto di un Trans in strada gli avevano lacerato lo stomaco, e quando s’erano spente aveva provato a strapparsi via il cinismo nella preoccupazione di eventuali danni alla sua macchina, parcheggiata di sotto. a quel punto il muro aveva preso a starnutire e qualche finestra si era aperta come un esortazione contrariata. La scritta nera sul soffitto, tratteggiata dal lampadario immobile, erano solo lettere indistinguibili e presumibilmente  mutevoli e non davano alcuna spiegazione al corredo di ingiunzioni lanciate con veemenza contro l’impotenza, a dispetto del principio di indeterminazione di H, propria di un osservatore di fronte alla realtà.

lunedì 7 marzo 2011

Sono il significato che darai alla mia presenza

quando la porta si chiude sento un po’ di vuoto. o forse sono i calzini. magari fai solo in modo che io non me ne renda conto, una mano aggrappata agli occhi per coprire le scene violente e una canzone a nascondere il sottofondo di sparatorie ed esplosioni. ti proteggerò dalla vacuità di un primo piano di Tarkovskij sulla nebbia indistinta, ma tu dovrai avvicinarti, stamparti sul mio viso, che la luce e il respiro depurano dal tempo, come in quel sogno, una bambina. Il vuoto è proprio dietro di me, disteso alle mie ombre, una per ogni luce sul palco. Perderti e proteggerti coincidono con lo stesso movimento in avanti, io sono il punto d’equilibrio, la barriera saldata sul precipizio che è anche l’unico appiglio esistente. Quando te ne andrai, un istante atterrito concederà al corpo invaso dal nulla  di incespicare spandendosi a terra, togliendo materia al vento, ritornando lentamente alla distrazione degli specchi, niente di cui dolersi, solo spazio da riempire, fra gli interrogativi sul senso avuto dall’uscire da se per incontrarti, giustificazioni nella bellezza di svegliarsi trovandoti germogliata dalla clavicola, nella percezione della potenzialità che hai di farmi raggiungere l’immagine che ho di me, che è merito della tua forma liquida e discontinua, che si modellano le tue guance fra le mie mani.

venerdì 4 febbraio 2011

Compattezza di un bosco




chiudetevi in strada, fra le fessure ritagliate dalle sagome dei passanti, raccogliete deplorevoli manciate di occhiate spente e vacue, fra le scie d’automobili lanciate l’una contro l’altra, in corsie fuse dalla vicinanza col marciapiede sfiancato, da una giornata intera di chiacchiere e buste della spesa, mi ricordo di quando comprai il mio primo giaccone pesante, era per il viaggio in Russia, era per il primo giorno di lavoro da capoufficio, era per la nipote allergica ai latticini, sono proprio contenta di trovarti bene, meglio se quando ricevi certe telefonate fai finta di niente, fate finta di niente, prendetevi dieci minuti per pensare all’ultimo sogno, di lei che usciva di casa e aveva il torcicollo e voi gli carezzavate la schiena e un graffio piccolo, come disegnato, domani se andiamo al cinema è gratis perchè ci sono le targhe alterne, dieci minuti a mettere a fuoco le figure opache filtrate dalla tenda, dalla finestra, dall’acchiappasogni di legno, dal terrazzo, dalle tovaglie a quadrettoni appese alla ringhiera, dagli alberi e dai fili del telefono, talmente leggere da sembrare ombre al mattino o macchie di sporco da cucina.
dieci minuti per immaginare che intorno all’ora di pranzo, di fronte a uno specchio, lei osserverà il riflesso distratto dell’appendiabiti accanto alla porta e un ombrello marrone anonimo, che diventerà una serata di dicembre accalcata al riparo di una tettoia all’ingresso di un cinema, che diventerà una parete di fiori rosa rampicanti in un casolare vicino al lago, che diventerà un racconto di Pasolini, scoperto per uno degli ultimi esami, che diventerà un incontro timido-invadente e leggiti-questo-pezzo-che-è-davvero-bello, che diventerà un sorriso piccolo, mascherato in una candida smorfia sottile e di capelli rossi.

domenica 30 gennaio 2011

Scrivere non serve a farsi amare.

Era profondamente risoluta, era non lasciarmi andare più, coi tuoi cartelli di indelebile blu appesi alla porta o lasciati sul cuscino, scivolati poi a terra dietro i comodini e per le scale, scalzi a fare finta di rincorrerti, mentre la  vicina esce di casa e corro a coprirmi i piedi, poi riscendere in un colpo secco all'accelleratore vederti uscire dipinta di determinazione assente dal parcheggio appositamente consigliato da una notte trascorsa da tempo. accadrà sempre in questo modo, ci sveglieremo improvvisamente durante i sussulti evitati nella meditazione, nelle parvenze di progettualità fluida, nei sorrisi liquidi stampati nelle orecchie,  chissà quante altre volte succederà, chissà quante altre volte no. ti chiuderai nelle tue esitazioni pre-stampate o ti perderai nella poesia di una metafora di cemento. grazie comunque di questi momenti di eternità sospesa, di panico docile, di attese sconcertanti immerse di parole e immagini in bianco e nero, grazie di queste partiture tremolanti, eseguite magistralmente fin quando non arriva il momento di girare il foglio, e allora perdersi al confine della distanza fisica, della caducità giornaliera del quotidiano pre esistente che torna a far valere le proprie prosaiche ragioni e diritti di consistenza. 

mercoledì 26 gennaio 2011

posso ancora smettere ma non si può.

provo a graffiare il muro col tuo nome, piano che il buio è solo un tentativo, che la notte i muri si scalfiscono con la leggerezza di una parola, ripetuta in sillabe cadenzate da minuscole pause, fra i denti e il palato, non c’è più nulla a significarla eccetto l’aria tiepida che incontra la stanza, quasi riscaldata dal movimento, quasi soffocata dal movimento, ombre-solido-imploranti e non ci sbatto più contro perchè ho memorizzato la posizione, i piedi a bruciare logorando la soglia di separazione, le mani a stamparsi schiaffi supplichevoli sui cuscini gualciti, libero eccetto il corpo chiuso e goffo e non ci ho mai trovato nulla di bello, se mai smettesse di pesare, gli stringerei volentieri la mano e lo conserverei scrupolosamente nell’armadio, in alto, come il vestito buono per i matrimoni degli altri. intorno agli occhi chiusi una piazza vuota con un ritaglio di macerie domestiche, buone a riempire discariche, deglutendo muri di rifiuti flaccidi, simbolo del disastro, e il mio personale modo di interagire con la sconfitta, calpestando i pezzi più piccoli per infastidirmi i piedi, accovacciandomi a contemplare i più grandi, che visti da vicino con la guancia-freddo-pavimento, occupano lo stesso campo visivo di una casa atterrita dal sole prolungato, e incombono imponenti, amorfi di briciole ma apparentemente compatti. 

sabato 8 gennaio 2011

L'eclissi

E gli occhi chiusi calati sulle palpebre scure liberarono immagini decisamente più nitide dei comuni pensieri, erano città osservate da un metro di distanza, balconi e navi, e quasi i colori, decidere dove spostarsi e cosa guardare, di solito non c’è mai nulla, si muove tutto a un livello di astrazione più alto. penso a un oggetto, una bottiglia, e lo percepisco in testa, ma non lo vedo realmente. e quella notte, al termine della notte, avevo visto talmente tanto, che forse non avevo più gran bisogno di guardare, come ripetersi la melodia di un’opera classica in testa dopo un’ora di ascolto, scoprirsi in grado di gestire la partitura di un certo numero di strumenti, ricercare quelle sensazioni di nuovo e spero che non siano episodi eccezionali, adesso non c’è niente, e non si sente niente.
il sole a forma di luna, riflesso nei palazzi e negli animali irrequieti e nascondersi fra le nuvole e riapparire nel bronzo-plastica delle pellicole fotografiche piegate in due che erano scarti di esposizioni sbagliate che erano luce dosata male e adesso filtri rudimentali per il sole arancio e spicchi nascosti, divorati lentamente e lentamente rilasciati, e succede così raramente che dovrebbero guardarlo tutti, bruciarsi di lacrime nella momentanea sopraffazione, invece di evitarne la vista, come accade di norma nel resto dei giorni.
E gli occhi chiusi sul primo treno dell’anno, sfiniti dalla prima notte, sprofondati nei sedili, le parole intorno degli altri sono come leggerne i pensieri di nascosto, i pensieri spossati e ovattati come la nebbia dei finestrini affacciati sull’erba e il bianco spento, che arrivano a confondersi coi sogni durati un attimo che arrivano ad interrompersi per colpa dei pensieri stessi, quando diventano troppo alti, quando diventano voci, e non solo flussi, raccolti, rubati dalle altre vite e immersi nella propria. Quadri impressionisti dell’alba che irrompe dalle nuvole incendiate, delle rive del fiume coi lampioni che affondano e si frammentano e  nuotano e si allontanano come correnti di colore che finisce per diluirsi nel blu, della folla sfocata che riempie fluida la piazza, e la ragazza di lato che pur essendoci immersa, si sente altrove, in un altro quadro, occhi francesi e qualche passo per allontanarsi e un giorno per scomparire.

l’anno vecchio è finito mentre abbracciavo una sconosciuta che non rivedrò mai più. mentre parlavo tutte le lingue eccetto la mia.