martedì 8 marzo 2011

Dormire in una stanza senza finestre

Mentre ti guardavo, la voce di un’altra età, le mani calate sul viso, per gioco, pensavo che sarebbe un po’ un peccato, un po’ un oltraggio all’intelligenza (dis)ordinatrice degli incontri, un’illegalità bella e buona, complici le nostre immaturità distinte e così innocentemente evidenti, una certa goffaggine a far da palo e sobillare reticenze e il resto del mondo barricato fuori, coi fotografi e i curiosi, nell’attesa di un evento che si consumerà in silenzio e all’insaputa delle autorità competenti. Un peccato, un oltraggio, un’illegalità, non rimandare per quanto possibile il momento degli applausi, quando la gente discorre disinvolta come se il palco si fosse improvvisamente dissolto sotto l’ondata dei loro colpi, non contemplare frastornati le ultime tracce di bianco illuminato e candido, che è anche un riscatto e una possibilità di rincominciarsi daccapo in quanto entità nuova.
Lei dormiva in un terrazzo in cui c’era spazio soltanto per il letto, e una parete di sbarre a riparare le cadute, o la loro semplice proiezione in timore, la divorava quell’istante in cui uno strappo le aveva mostrato l’eventualità in cui fossero finite le parole che parlavano di loro, ne rifuggiva il dissidio della conferma nelle complicazioni della distanza.
Lui osservava un torrente, che era il torrente tipo di ogni film d’azione americano cioè, ogni volta che serviva una scena con un torrente, andavano a inquadrare quello. Gliel’avevano fatto notare mostrandogli le foto di vari film con un torrente in scena, ed effettivamente combaciavano tutti. E non dormiva. Le grida di aiuto di un Trans in strada gli avevano lacerato lo stomaco, e quando s’erano spente aveva provato a strapparsi via il cinismo nella preoccupazione di eventuali danni alla sua macchina, parcheggiata di sotto. a quel punto il muro aveva preso a starnutire e qualche finestra si era aperta come un esortazione contrariata. La scritta nera sul soffitto, tratteggiata dal lampadario immobile, erano solo lettere indistinguibili e presumibilmente  mutevoli e non davano alcuna spiegazione al corredo di ingiunzioni lanciate con veemenza contro l’impotenza, a dispetto del principio di indeterminazione di H, propria di un osservatore di fronte alla realtà.

lunedì 7 marzo 2011

Sono il significato che darai alla mia presenza

quando la porta si chiude sento un po’ di vuoto. o forse sono i calzini. magari fai solo in modo che io non me ne renda conto, una mano aggrappata agli occhi per coprire le scene violente e una canzone a nascondere il sottofondo di sparatorie ed esplosioni. ti proteggerò dalla vacuità di un primo piano di Tarkovskij sulla nebbia indistinta, ma tu dovrai avvicinarti, stamparti sul mio viso, che la luce e il respiro depurano dal tempo, come in quel sogno, una bambina. Il vuoto è proprio dietro di me, disteso alle mie ombre, una per ogni luce sul palco. Perderti e proteggerti coincidono con lo stesso movimento in avanti, io sono il punto d’equilibrio, la barriera saldata sul precipizio che è anche l’unico appiglio esistente. Quando te ne andrai, un istante atterrito concederà al corpo invaso dal nulla  di incespicare spandendosi a terra, togliendo materia al vento, ritornando lentamente alla distrazione degli specchi, niente di cui dolersi, solo spazio da riempire, fra gli interrogativi sul senso avuto dall’uscire da se per incontrarti, giustificazioni nella bellezza di svegliarsi trovandoti germogliata dalla clavicola, nella percezione della potenzialità che hai di farmi raggiungere l’immagine che ho di me, che è merito della tua forma liquida e discontinua, che si modellano le tue guance fra le mie mani.