lunedì 13 dicembre 2010

La bolla dei tulipani


e un gioco. ho preso ad imitarti. distaccando dalla mia superficie i cenni di comprensione e condiscendenza. rabbonendo gli scrupoli conseguenti con iniezioni di disinteresse e non mi importa ecco tutto, venire da dentro. e una specie di soddisfazione e di maturità da appendere ai muri, col disegno dalla parte della vernice fresca a impolverare l’evidenza rilevante e i significati in primo piano. sono soltanto richieste di senso, da condividere. sono soltanto innocentemente illegittime, provocazioni di curiosità. e dimmi se io sono solo infinite parentesi nel quotidiano in cui distrarti e cercare uno sguardo, niente di più, domande spedite all’angolo dei lettori, posti vuoti in prima fila nella platea di un teatro gremito, donazioni ai fondi di aiuto umanitario con nome troppo lungo da ricordare, commenti circostanziali col palato di sugo e carne al telegiornale della cena, per distogliere lo sguardo della bottiglia d’acqua, che è vuota. qualcosa come evitare qualsiasi profondità o anche una qualsiasi tangenza, dispacci telegrafici in pillole d’esistenza distante, valutazioni oggettive per condividere la morte del tempo. e io se me l’avessi concesso mi sarei reso oltremodo utile, ma un giorno mi hai detto che non dovevo assolutamente spedirti i regali per posta, neanche se a suonare il campanello era un altro. e io sorridevo il giorno che ho scoperto che i libri di una volta avevano le pagine attaccate, per esigenze di stampa e per riqualificare i tagliacarte, e che una pagina ancora non tagliata non l’ha mai letta nessuno e tu sei il primo a leggerla, il primo a respirare sull’inchiostro scagionato e gli occhi ad aspettarlo emozionati, sorridevo a guardarci vicini, e così al sicuro da tutti gli equivoci e l’ansia e il dolore e le pareti ad sostenerlo, così serenamente guardarti, nelle geometrie di una tempesta che ha cambiato tutto senza lasciar residui di se, se non nel cambiamento stesso.

giovedì 2 dicembre 2010

Volontà generale

Voglio trovare quel libro in cui si spiegava che i moti studenteschi ’68 erano stati strumentalizzati dal sistema economico-commerciale per distruggere i vecchi valori come la famiglia patriarcale e permettere il dilagare del consumismo, “babbo non rompere il cazzo e comprami questa Playstation”, che da 40 anni ancora aspettiamo questi benedetti nuovi valori, a cacciare il vuoto apatico solidificato. Voglio leggere l’articolo di Pasolini in cui si parla del capovolgimento nella lotta fra studenti (figli della borghesia) e polizia (figli del proletariato). Voglio la confutazione dei luoghi comuni, e non vedere bottiglie di vino e gente ubriaca alle manifestazioni. Voglio veder gente urlare col sorriso, non con violenza. Voglio gli studenti veri a manifestare, e gli altri a casa a recuperare il tempo perso. Voglio sapere quanti di quelli che occupano invocando il diritto allo studio, lo portino anche avanti come un dovere, applicandosi quotidianamente con costanza e consapevolezza dell’importanza sociale del loro gesto. Voglio un sociologo che mi spieghi la sociologia della folla, e se l’ebbrezza nel gesto di occupare i binari o qualsiasi blocco pubblico sia più dovuta a un senso di partecipazione politica fraterna o alla semplice violazione della legalità protetta dalla forza del numero. Voglio capire ingenuamente qual è il modo appropriato per cambiare la situazione. Voglio investimenti all’università e alla ricerca , e una riforma totale del sistema scolastico dalla base, rimuovendo dagli obiettivi quello di “parcheggio a tempo indeterminato” e aggiungendo l’anti-lobotomizzazione e risveglio della consapevolezza individuale e del pensiero consapevole, anche se l’ignoranza fa bene al commercio, e la con la manodopera meno qualificata si risparmia. 





mercoledì 1 dicembre 2010

La consistenza del disordine

La tangenziale in punta di ruote avvicendarsi roventi e asciutte come una bocca affamata, intervalli di soffi allontanati verso le estremità dell’orizzonte stradale, al centro di tutto una scatola di cartone congelata in saltelli e scatti, ancorata all’asfalto, e intorno roteare le tessere di un puzzle, ravvivate dai veicoli in transito, foglie sullo sterrato al tocco del vento nelle sere di fine estate. che a qualcuno è venuto in mente di gettarle li, dal finestrino o dal bordo del prato adiacente, facendo pressione con la mano sul metallo ondulato del guard-rail per caricare la forza giusta del lancio, e poi l’esplosione secca al primo contatto e lo spargersi di frammenti, pezzi di vetro infrangibile, già separati prima di cadere, già distrutti prima del salto. ciascuna ruota sceglie il suo pezzo, lo schiaccia violenta fissandolo a terra e si compone, automobile dopo automobile, un mosaico storto, strappato di colori, asfalto, e cartone dei pezzi al contrario, informe, astratto e incomprensibile, ma più solido e immobile di qualsiasi incastro corretto, di qualsiasi composizione da appendere in salotto, ore per delinearne il contorno, giorni per riempirne gli spazi.