venerdì 26 novembre 2010

La diceria dell'untore

“Era veramente divenuto un gioco, alla Rocca, volere o disvolere morire..”  i malati di tubercolosi hanno una probabilità su tre di sopravvivere, l’indovinello dei cappelli, tre bianchi, due neri, tre persone bendate sceglieranno un cappello ciascuno, poi in base all’osservazione del cappello altrui si salverà chi saprà dedurre il colore del proprio. in linea di principio è salvo solo chi vede due cappelli neri. i primi due rinunciano , vengono uccisi. l’ultimo a questo punto ha la certezza che il suo cappello è bianco. infatti se fosse stato nero il secondo avrebbe capito di non poter avere esso stesso un cappello di quel colore, altrimenti il primo avrebbe avuto la certezza di indossare un cappello bianco, e così si sarebbe salvato. è solo grazie alla morte dei primi due che il terzo riesce a salvarsi. e se non l’avete capito fatevi un disegno. e non è un vero e proprio sacrificio, perchè il primi due non possono scegliere. gli attori prendono fiato ad ogni parola. la morte balla con loro, o forse è la vita, o forse è l’amore. il primo livello è il limbo del sanatorio, il secondo livello, la città. travestirsi da vivi per scendere a Palermo, fuggire nelle campagne, fra processioni di   contadini e santi, e il rosso nei fazzoletti pieni di tosse, nelle scene dei film visti da bambino, nascosti di fretta in tasca, prima che uno sguardo compassionevole e preoccupato li intercettasse. Di solito prima o poi nei film succedeva sempre. la verità è che in tutti questi millenni di guerre e sconvolgimenti non c’è un solo evento paragonabile per importanza  alla piccola catastrofe della mia morte. un giorno cercherò le parole precise. che scorrono come poesia o musica, nel momento in cui la disattenzione ne uccide il significato diretto, un treno che uscito dai binari continua il percorso, danzando. la scalinata unisce il cielo con l’inferno, sangue di radici colate che crescono rami spogli. sventoleremo le nostre radiografie per morire poi di dolore essendoci scrutati fino all’interno, e averci scorto il cupo male bianco. le terremo nascoste sotto il cuscino come una foto nel portafogli scattata su una cabina alla stazione di Firenze, che nel secondo scatto tu hai il sorriso più bello. i capelli corti del disonore, i sogni da ballerina, le notti a parlare da sola a far la guardia a un casello di campagna, fra giochi inventati e racconti, sul vomito dei vagoni e i frammenti di giornale, il presente come cruna di un ago, in cui il futuro penetra nel passato, e non mi importa di quant’eri bella da giovane, e non mi importa di leggere i documenti sulla tua vera storia, le tue menzogne ricamate, ritrattate per gioco o per gioco inventate. amo le tue guance scavate, i tuoi balli sfiniti, i capelli che ti sono ricresciuti, la morte nella tua bocca e le ultime urla di vita che si spengono nei tuoi occhi. e allora nasconditi in camera senza muoverti dal letto, coi vestiti e i trucchi nell’armadio per non mentirti più. oppure fuggiamo, per ritardare l’ora della separazione, lontano in corse d’automobili a raccontarti la mia vita e la mia terra. La morte ti prenderà comunque, in un ultima esplosione di febbre. e io invece sarò salvo. in questo capriccio di Dio, questo gioco per placare la sua solitudine, o la nostra. verrò dimesso dalla Rocca, e  guarito ritornerò fra i vivi. 

martedì 23 novembre 2010

Abito

L’abitudine dovrebbe essere al massimo una consolazione, non un alibi. I colpi sul muro. Fuori da ogni ritmo. I sogni sempre più nitidi, tirar su la tapparella e aprirsi al buio, perchè allo stesso tempo una tovaglia a fiori cade giù, celeste scuro. Sul balcone l’orizzonte oscurato dalle nuvole buie, o fumo di vulcani islandesi, e un cerchio di luce, il faro di un elicottero che atterra in cortile senza il vento normalmente incluso o il salvataggio dell’economia irlandese mentre sceglie se declassare lo stato sociale o aumentare la tassa sulle aziende come quando è caduto l’appendi abiti e mi s’è stretto il cuore, che rimandasse forse a un qualche dolore travestito di metafora, ti prego non farlo di nuovo, ho preso le felpe e le ho spostate sull’armadio. Quando cado io è una liberazione. Invece  se cade qualcos’altro. E osservare attentamente è come correre invece di camminare, ci perdiamo i piani alti dei palazzi, i balconi eleganti e la gente che addobba gli alberi di natale come suggerito dalle pubblicità previdenti. Dove finiscono queste immagini, ci sarà un limite all’ingombro di particolari di cui si coronano le idee e le forme, o continua ad aver senso, giorno dopo giorno, collezionare tavoli mentali ed arredamenti componibili per abitare i proprio luoghi di riflessione, interruzioni intermittenti nella quotidiana epopea di disattenzione e disconsapevolezza. mi distraggo quindi sono. non posso essere presente di continuo, devo uscire, devo prendermi pause di deriflessione, devo perdermi altrimenti mi stanco, torno presto, tanto so bene cosa fare anche senza di me, sono abituato, sono involontario, la normalità stessa è frutto della selezione naturale, sopravvivono e si tramandano i più adatti a sopravvivere, evidentemente una telefonata allunga la vita, e anche l’iterazione pubblicitaria, la metodicità autosufficiente desensualizzata, come sarebbe straziante gestire e ogni singolo respiro, come sarebbe noioso supervisionare ogni minima azione, l’abitudine è il vantaggio di aver più tempo per pensare, non una  scusa per non aver bisogno di farlo.