sabato 23 ottobre 2010

Rischio morale




Le buste della spesa ormai si lacerano tutte. Incuranti del sempre più allarmante problema dello scioglimento sistematico dei surgelati. E non so neanche se avrò voglia sta sera di incontrarti al compleanno dei nostri bambini. Cercare le tue scarpe piegato a gattoni mentre raccolgo i tasselli verdi delle costruzioni che sono scivolati sotto l’armadio. Far finta di essermi incastrato il braccio con la mano sepolta nel buio, che magari ha paura di star li e per distrarsi inizia a tamburellare il pavimento morbido di gomitoli di polvere. Mantenere una posizione consona e insospettabile col resto del corpo cercando eventuali corrispondenze con la parola “comodità”. E poi ho sentito la tua mano abbracciarmi le dita, tirarmi dal buio per trascinarmi in quel rifugio infantile. Ho sbattuto la fronte sul legno che l’ultima volta non avevo avuto bisogno di chinarla, l’ultima volta non avevo dovuto schiacciarmi contro il pavimento claustrofobico, con la maglietta che si arricciava e il freddo a calpestare la pancia. Quando è passato anche il sedere tu continuavi a tirare con forza e mi sono ritrovato a darti una testata. C’erano solo le nostre teste giganti appoggiate sul dorso delle mani a scambiarsi respiri d’aria sempre più rarefatta. La luce si fermava alla guancia sinistra, come un profilo dei disegni all’asilo, con le mani che erano dita convergenti e i capelli che si potevano anche contare, gli stessi che un giorno avevamo confrontato, per capire quanto lontano nel passato si fosse spinto il nostro complice disaccordo. Ti ho detto che prima di uscire avremo raccolto tutti i segreti che erano spariti la sotto. Quelli che si erano salvati dall’aspirapolvere. Quello che avevamo perso senza sapere dove, rotolato in quegli angoli che finché te ne stai fuori non riesci ad arrivarci. Tu avresti trovato una caramella allo zucchero, una moneta da 100 lire e un Ovetto Kinder-sorpesa che avevi buttato piangendo perché scuotendolo ti era sembrato che ci fosse un regalo di quelli che non si costruiscono, io una macchinina blu senza una ruota un bottone da occhi di pupazzo di neve. E te ne sei accorta che avevo nascosto qualcosa in tasca. E mi hai tirato per i capelli per parlarmi all’orecchio. E allora ho tirato fuori un ammasso di pongo schiacciato, che non si riconosceva più il soggetto originale, l’ho preso e l’ho  premuto contro il bordo, come le gomme sotto i banchi di scuola. 

giovedì 21 ottobre 2010

Per fortuna non ci si sposa più per corrispondenza



In televisione hanno detto che è un mese che sei partita. però io la televisione non la guardo. Sono passato qualche volta dalle parti di casa tua, ma tu non c’eri, e allora ho deciso di fregarmene dei sensi di circolazione vietati. Divieti senza motivo aggiungo. E’ come quando accendono i riscaldamenti, che sembra una vita ad attenderli nel freddo dei risvegli precoci, che sia inverno da sempre e che tu te ne stia altrove da sempre. Novunque. Dove c’era casa tua adesso c’è un ascensore gigante, l’hanno costruito per evitare tutte quelle strane disarmoniche scale e quelle porte che conducevano soltanto a un altro corridoio e accrescevano solo l’intimità dell’ingresso. allora ho pensato che un giorno progetterò una casa senza scale, in cui ogni stanza è un gradino più in alto delle altre e per arrivare in cima devi attraversare tutto l’edificio metterti le pattine all’entrata. Nel posto in cui ci siamo salutati non ci sono più andato, perché questa stanza ha sempre più pareti e sempre meno vicini, e così almeno posso recitare Amleto allo specchio senza abbassare la voce o sentirmi in imbarazzo o intercettare conversazioni telefoniche e litigi che poi si sarebbero rivelati dibattiti politici. Alla finestra c’è il solito pezzo di cielo, dicono che bisogna sempre fare in modo di avercelo un pezzo di cielo, alla finestra e io sono contento perché molto spesso è un ritaglio sereno, indispettito e distante da quello che succede alle altre finestre. E vorrei averceli anche io i prati verde saturazione digitale. Non ho più fatto una foto ne tagliato i capelli, però cucino spesso, suono soltanto in sala prove e quando attraverso la seconda uscita di una rotonda ho qualche brivido e rido. Qua di notte in montagna partono autobus dall’Inghilterra con le tue compagne d’università. Però una signora con i modi spocchiosi mi ha assolutamente detto che a Milano non fermano.  Qua molta gente si annoia e io vorrei solo impedirlo, ma con intromissioni discrete perché gli specialisti ci hanno spiegato che urlare nelle orecchie di una persona che dorme può essere traumatico e dovremo limitarci ad alzare lentamente le serrande a sorridere del tremito al di sotto delle palpebre, sorrisi casualmente accennati nelle infinitesime alterazioni involontarie della bocca. Nel frattempo sto gradualmente provando un campionario dimostrativo di vecchiaia, questa settimana ci hanno proposto un tenue mal di schiena, per la prossima settimana ci hanno già spedito un pacco con degli occhiali, perché per leggere ne avremo bisogno. A volte vorrei parlarti di te, del tuo arrivo all’ aeroporto che c’ero io a non-aspettarti con un’insegna gigante e una scatola di cartellini adesivi per dare un nome a tutte le cose nuove che ti trovavi davanti che è poi come uscire dopo il primo giorno in classe e averci in testa una massa di visi tutti uguali a parte il ragazzo che in mezzo alla lezione si è  alzato per fare una domanda su un libro di testo e tu hai notato che nel punto in cui i capelli spettinati cadevano sulle orecchie c’era un ricordo di qualche anno prima e ti sei affrettata per recuperarlo prima che la domanda fosse finita del tutto. Adesso che tutti hanno una faccia diversa ti saresti preoccupata di staccare i cartellini e me li avresti spediti. Io ci avrei costruito una geografia del tuo mondo su una delle pareti libere, però prima avrei controllato se l’adesivo si fosse portato via anche qualcos’altro. sarebbe stata una ricostruzione migliore. Qui la geografia cambia ogni giorno. Nell’appartamento vicino stanno ancora facendo i lavori, ma sono meno rumorosi del solito, forse imbiancano. I luoghi cambiano di significato e sotto a un mercato capita anche di trovarci un teatro nascosto. Io ogni giorno mangio una briciola di pane per averci almeno la percezione di poter sempre trovare la strada del ritorno. Un ritorno qualsiasi.

Tu forse non ti perdi più.