spesso l'articolata paesaggistica sovietica ricorda veloci e e fugaci rimescolanze di moderati e superflui pettegolezzi
giovedì 30 settembre 2010
Questa volta si capisce che sei tu
IO NEI RACCONTI NON BEVO MAI
Grazie M.P. |
mercoledì 22 settembre 2010
A noi invece ha parlato solo dei biscotti
erano molte di più. |
C'è un bel silenzio qui. una volta abituati al condizionatore quando lo spengono sembra di raggiungere un livello più alto di afonia. come SE qualcosa CHE si svuota. che poi chissà di chi è quell'accendino giallo. forse del tizio col sorriso da RAI 1. da grande voglio costruire palazzi, opere architettoniche ambiziose folli di creatività. però voglio delegare qualcun altro come responsabile. fargli curare l'aspetto burocratico. e anche le certificazioni di conformità. insomma se poi quello che costruisco crolla non voglio che il merito spetti a me. grazie lo stesso. Oggi ho scritto che noi siamo intuizioni. anzi che siamo le parole inadatte che si arrampicano e tendono a definirle e a significarle. mi sembrava saggio. Passavo in una via del centro. davanti ad un luogo di preghiera musulmano. sulla porta c'è un muro di scarpe accatastate, e io non ho neanche il tempo di elaborare l'immagine che mi arriva addosso un vento ingombrante di piedi e calzini arrotolati. ho pensato che fosse la definizione giusta di intuizione. ho pensato che di fronte a un intuizione (o forse sarebbe più giusto dire attorno) la prima sensazione è di stupore e compiacimento, la seconda e frustrazione di non avere il modo giusto di trasmetterla. perchè le idee sono colorate e noi abbiamo solo parole in bianco e nero. perchè l'intuizione è un salto, come ritrovarsi dall'altra parte di un ponte distrutto senza sapere COME e doverlo spiegare a chi è rimasto all'altro capo. Un lampo di neuroni che per qualche istante invade all'unisono un mosaico di immagini sfiorandole appena. il diaframma che si restringe per contenerlo. e infine di nuovo il buio. per spiegare un intuizione mi hanno detto che ci serve un testo allegorico-evocativo. uno Zarathustra o una bibbia, o le Upanishad. mi hanno detto che è il massimo a cui siamo arrivati.
sabato 18 settembre 2010
Mi sono appena accorto che manca il post che dava il titolo al blog
era l'esperienza generale a favorire l'intercorrersi inedito di boiccottate similitudini..e nel buio piano piano perdevi la concezione della presenza dei tasti, eppure i tasti erano sempre li dove le tue dita ormai incosciamente indirettamente inconsapevolmente avevano imparato che fosssero, un giorno t'eri reso conto che a forza di battere sulla tastiera le tue mani e la tua testa avevano ingenuamente interiorizzato la posizione delle lettere.. ed era l'ingenuità e l'involontarietà della nuova capacità acqistata ad intessere quel senso di meraviglia.. le foglie aumentano nel fragore ottuso di un gemito solo tardivamente compreso solo tardivamente assimiliato analizzato interiorizzato e illeggitimamente rimasto solo, insieme all'inettidtudine minacciosa di un minimo movimento facciale e alla spossatezza e la spaesatezza di un subitaneo slancio d'orgoglio.. non conoscevo la pronuncia di migliaia di parole sconosciute eppure mi riservavo il diritto di condizionare le mie ombre con affascinanti disquisizioni lessicali comunemente fuori luogo e fuori tema...nella povera ricorrenza di occhiate e moderni sentimentalismi sentivo tragicomiche esclamazioni di sotterfugio ed esibivo timidamente un vecchio passaporto d'oltralpe fabbricato provvisoriamente per celare ineccepibili ma allo stesso tempo ignare supposizioni manipolate... spesso l'articolata paesaggistica sovietica ricorda veloci e e fugaci rimescolanze di moderati e superflui pettegolezzi.. esauditi gli ultimi e i penultimi ordini imposti scorgo non lontano dall'indecenza una nuvola di paraffina e fumo di sigari condensato volare intorno a lampioni di umile ottone... il vocabolario concluse la sua spartizione equa dello scibile insolvendo però la sua origine di continuatore e divulgatore di un immeritata sapienza.
giovedì 16 settembre 2010
Se una notte di fine estate un viaggiatore - Parte 2
Se una notte di fine estate un viaggiatore - Parte 1
Chi è che hai salutato? Non mi ricordo. Volevo prendere una sedia perché non avevo posto. Io vado a casa. Io vado a lavorare. Io vado a Roma. Che poi e tutta una storia silenziosa sulla consequenzialità dei bisogni. Ti pare che vado in giro a ed esibirmi coi pattini. Quello lo puoi tenere basta che ti ricordi di considerare il ritmo della svalutazione affettiva. Io non le rimetto a posto mai le stampelle. Anche se ho telefonato già da parecchio. Credo che a certi livelli un volto agitato comunichi molto meglio di un piatto di pomodori al ragù. Voglio smettere di indossare calzini nascosti. Con l'immaginazione può dipingere un canguro che striscia, non mi ricordo se i canguri sono quelli con una gobba sola. Se hanno due gobbe si chiamano nembiferi. L'ho ascoltato parlare per un po' e alla fine ho dedotto che la sua alacrità poteva essere ricondotta all'uso eccessivo di tovaglioli. Non giustificare il tuo aspetto trasandato mostrando com'eri vestito sulla carta di identità, esibendo a gran voce il fatto che alla voce segni particolari l'impiegata dell'anagrafe abbia ben pensato di scriverci NESSUNO. Ti pare che mostro certe cose a un'impiegata mai vista e conosciuta. Però sarebbe stato utile. Io non ho mai visto nessuno scriverci. Forse solo quando avevano fretta di riconoscere il proprio sostanziale miglioramento interiore. Però l'importanza svalutava, insieme alla recessione del gruppo interiore timido che finiva per palesarsi con smottamenti del capo e regie improvvisate capeggiate dal gomito sinistro. Io voglio smettere di lanciare invettive contro i tavoli dei bar con una gamba sola, che si reggono ancorati con delle viti. E solo per quello. Anche loro hanno delle esigenze di stabilità. Io però invece di starmene fermo comincio a pensare che le docce fredde contengano un apporto calorico molto equilibrato e contundente. Se hai letto fino a qui non ti scoraggiare perché manca poco. Poi torno a dormire lo giuro. La musica ormai è un concetto palindromo, puoi ascoltarla quattro volte e non ti ricorderai mai l'evoluzione effettiva dei passaggi a ritroso della parte ritmica. Oggi avevo finito gli intervalli di silenzio. Allora mi sono rivolto all'omino che diffonde i comunicati stampa e gli ho chiesto gentilmente di rimandare a domani l'inesattezza dei contenuti di quel discorso circospetto e sbadato. Domani magari faccio la stessa cosa oppure metto dei pali coi manifesti Wanted.
Studiare il rumore nelle trasmissioni radio
Vedere uno scoiattolo basta per dire che ce ne sono due?
domenica 12 settembre 2010
A lungo mi coricai (non) di buon ora.
martedì 7 settembre 2010
Proust alle giostre leggere
venerdì 3 settembre 2010
Il primo giovedì del mondo.
Il primo giovedì del mondo indossavo la mia maglietta preferita, quella degli eventi importanti, quella piena di buchi provocati da non so che cosa. Vintage. E un maglioncino di lana. Il primo giovedì del mondo ho pronunciato il mio nome con imbarazzo, perché era buio e molta gente stava a guardare. Una telecamera ha ripreso tutta la serata. La serata era dedicata alla follia creatrice. Un giorno esploderemo anche noi. Come secchi di vernice colorata. Fino ad allora subiremo i nostri blocchi emotivi, dannate incursioni del razionale, ditemi cosa c’è di banale. Datemi modo di distinguere quello che va fatto da quello che è già stato fatto. Cosa te ne fai poi della pazzia bruciata di un’individualità consunta, pensi che ci sia della bellezza in questo. Pensi che basti il veleno a sedare la banalità. L’armadietto bloccato si è semplicemente spalancato con noncuranza quando ho chiesto aiuto a qualcun altro. Dov’eri prima del primo giovedì del mondo. Avevo semplicemente dimenticato di portarmi dietro la borsa con i libri. Da bambino portavo sempre con me un libro, anche quando prendevo lezioni di guida. Il primo giovedì del mondo si aprivano spiragli di nulla e io li ignoravo spudoratamente, come promemoria sul telefonino. Finché non metti la cintura l’indicatore acustico continuerà ad assillarti con voce crescente, qui invece dopo un po’ si placano. Non condivido queste mie invasioni immotivate, e quest’approfondimento mediato. Se ho paura delle distanze faccio qualche passo in avanti, ma non mi ricordo neanche un nome, di tutte le mani strette, in nome di una vicinanza contestualmente celata. Un uomo trasformava migliaia di numeri in frasi bizzarre che sembravano uscite dalle mie considerazioni sconnesse:
“arruffando sentieri dai risvolti metallici risuonava come circospezione declamata
all’orizzonte di cartone che gli era stato imposto di ricordare”
La buccia della frutta non andrebbe mangiata, è li che le tossine vengono immagazzinate. Eppure aneliamo alla bellezza nella scorza, accontentandoci di un esteriorità porosa.
Voglio dei pensieri abbastanza profondi, che rendano anche la pelle splendida.
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giovedì 2 settembre 2010
Invettiva toponomastica
mercoledì 1 settembre 2010
Riempire un vecchio libretto delle assenze con scuse inventate.
Maledetto. Donna con gli occhi che non mi ricordo. E la voce piccola. Azzurro. Non c’è nessuna logicità in questo. Però la pelle mi pesa, potrebbe scivolare semplicemente da un momento all’altro, cade verso il basso. Prima o poi avrò le rughe. E la pelle cadente. Intanto osservo gli altri invecchiare. Con le loro giacche di pelle e i loro completi eleganti. Io sono con la barba di Marx, potrei sembrare vecchio. I sottotitoli in ritardo rispetto alla voce, la voce in ritardo rispetto alle labbra, le labbra inzeppate di pensieri a pressarsi in fondo all’uscita. In ogni caso andiamo avanti, qualcosa da rubare c’è sempre, prendi tutto tu. Di queste assenze rimandate all’autunno. La confezione di posate di plastica prendila tu, io bado alla sovversione. Forse decolleremo in banali vortici di disattenzioni. I bracciali che porto al polso rimangono finché non si slacciano la prima volta, dopo non li ho più visti. Se fosse un incontro qualunque, al supermercato, fingerei di cercare il dentifricio al reparto surgelati, osserverei la tua mano ritirarsi dal freddo dello scaffale, ruvida di condensa. Come impedirlo. Assumi l’atteggiamento scialbo di un venditore di orologi. Lui non si accorge di vendere il tempo. Altrimenti cerchiamo un locale più grande. Per acquisire maggiore visibilità. Io non l’affronto, io l’ultima volta che mi hanno chiesto il nome l’ho letto sulla carta d’identità, io sono fuggito senza preavviso verso un manto di scale che non ho neanche avuto il coraggio di salire. Come I pupazzi dei parchi giochi quando fanno finta di tapparsi gli occhi con le mani. e in realtà gli occhi gli occhi ce li hanno all’altezza della bocca. Nausea come rigetto di qualcosa che si agita da dentro. Oppure. Nausea come rifiuto di qualcosa al di fuori di noi. Cosa c’è di speciale nel primo giorno del mese, non ho neanche un calendario da strappare. Però quest’aria l’adoro. Dovremo imparare dai parcheggi inventati, quando si ha fretta di sistemarsi, quando ci spingiamo al limite dello scontro per renderci consapevoli, e sistemarci I capelli dietro alle orecchie. Tutto nello stesso specchio. Da quale tassello di diversità proviene questo rancore, da quale altro l’astio per le convenzioni, per la banalità. io il telefono lo lascio squillare indifferente. io forse degli altri odio soltanto gli stessi difetti che ho io.
quando sarai grande non dare mai confidenza agli sconosciuti, al massimo donagli qualcosa di te.